a cura di Valentina Comiti e Marta Di Grado
“Quando mi dicono: ‘Come stai bene!’ vorrei sprofondare sotto terra perché significa che sono grassa”; “Mi sento enorme, ingombrante, vorrei essere invisibile”; “Sono ossessionata dal mio peso, penso costantemente al numero della bilancia e qualunque cosa mangio ho il terrore che quel numero aumenti e mi sento in colpa, uno schifo.”.
Questi sono alcuni dei vissuti angosciosi e maggiormente ricorrenti nella vita di una persona affetta da un disturbo del comportamento alimentare. Una vita dominata costantemente dal pensiero del cibo, delle calorie, del peso, da sentimenti di inadeguatezza.
I disturbi del comportamento alimentare (DCA) sono condizioni psicopatologiche in cui sono presenti forti preoccupazioni circa il proprio peso, la forma del corpo e comportamenti disfunzionali rispetto alle abitudini alimentari. I pazienti con DCA presentano, nella maggior parte dei casi, scarsa consapevolezza del disturbo.
I principali Disturbi del Comportamento Alimentare sono:
Secondo la classificazione dei disturbi alimentari del DSM 5, l’Anoressia nervosa è caratterizzata da: restrizione nell'assunzione di calorie che conduce a peso corporeo significativamente basso; intensa paura di ingrassare; comportamento persistente che interferisce con l'aumento di peso; alterazione del modo in cui viene vissuta la forma del proprio corpo.
La Bulimia nervosa, invece, è caratterizzata da ricorrenti episodi di abbuffata, ossia assunzione in un determinato periodo di tempo di una quantità di cibo significativamente maggiore di quella che la maggior parte degli individui assumerebbe nello stesso tempo e in circostanze simili, e dalla sensazione di perdere il controllo. Il peso dei soggetti che soffrono di questo disturbo è nella norma o può presentarsi un lieve sottopeso o sovrappeso Inoltre sono frequenti inappropriate condotte compensatorie (vomito, lassativi, eccessiva attività fisica) per prevenire l'aumento di peso. I comportamenti compensatori generano un forte senso di vergogna, non solo in riferimento alla propria immagine riflessa allo specchio, percepita continuamente come inadeguata, ma anche rispetto alle quantità di cibo ingerite. Esiste, infatti, una stretta connessione tra cibo ed emozioni: tristezza, solitudine, rabbia, spingono a mangiare di più al fine di tollerare tali emozioni, ma subito dopo ci si sentirà insoddisfatti, e il circuito si ripeterà ancora e ancora. In entrambi i disturbi, i livelli di autostima sono eccessivamente influenzati dalla forma e dal peso del corpo.
Il Disturbo da binge-eating è anch’esso caratterizzato da abbuffate, che avvengono anche in assenza di appetito e in tempi particolarmente rapidi fino a uno stato di sgradevole pienezza. La persona è quindi obesa o in sovrappeso, e le abbuffate vengono messe in atto in solitudine (per l’imbarazzo del quantitativo di cibo) e culminano in uno stato di disgusto verso se stessi e forti sensi di colpa. Non sono associate a condotte compensatorie.
Secondo l’orientamento sistemico-relazionale, il paziente con disturbo alimentare esprime un disagio che nasce e si consuma all’interno della famiglia d’origine. Secondo Selvini Palazzoli (1988), la paziente o il paziente anoressico ha vissuto in famiglia un imbroglio relazionale: è stato coinvolto da un genitore in dinamiche di coppia mirate a ferire l’altro genitore. Il figlio si sente quindi ingannato e strumentalizzato. Ovviamente, in questi movimenti relazionali i genitori non agiscono con la finalità cosciente di far “ammalare” il figlio, ma sono così immersi nei problemi col partner o familiari da non riuscire a tutelarne il benessere.
Secondo la Selvini Palazzoli, il processo che culmina con la malattia inizia con una fase di stallo di coppia tra i genitori. Il figlio o la figlia viene coinvolto in questo empasse, divenendo il preferito dell’uno o dell’altra. Con l’avvento dell’adolescenza, la futura paziente (l’Autrice si riferisce prevalentemente a un soggetto femminile) si avvicina al padre, che lei vede come una vittima, anch’egli, della madre, con la quale la figlia vive un forte antagonismo. Solitamente a questo punto avviene la dieta, un evento che è in parte frutto dell’esigenza di differenziarsi dalla madre, di rendersi estremamente diversa e autonoma rispetto a lei - assumendo il pieno controllo su di sé e sul proprio corpo - in parte una sfida. Successivamente si verifica il “voltafaccia paterno”: la figlia si sente tradita dal padre, che agli occhi della figlia si è coalizzato con la madre. A quel punto la paziente mette in atto il sintomo alimentare, un comportamento che segnala il proprio malessere in maniera lampante, attraverso le trasformazioni palesi di un corpo che, in maniera ambivalente, da una parte richiede attenzione e cura, dall’altra le rifiuta. L’individuo a quel punto sperimenta l’incredibile potere conferito dal sintomo, che modificherà gli equilibri relazionali della famiglia e che consentirà in qualche modo di riconquistare la posizione privilegiata dell’infanzia (Selvini Palazzoli, 1988).
Rimanendo nella cornice sistemico-relazionale, secondo Valeria Ugazio (1998), il disturbo alimentare nasce in famiglie il cui tema preponderante è quella del potere. Il messaggio che viene trasmesso implicitamente è che si è vincenti proprio perché si è determinati, si ha controllo di sé stessi e degli altri, mentre si è perdenti perché si è passivi, arrendevoli, in balia delle sopraffazioni degli altri. L'anoressica diventa l’estremizzazione dell'individuo vincente; per gli obesi, invece, la loro imperfetta forma fisica è la conferma tangibile del fallimento a cui conducono la loro passività, arrendevolezza e mancanza di autocontrollo.
Potremmo quindi vedere l’anoressia come il tentativo di dimostrare, agli altri e a se stessi, la propria autosufficienza: l’anoressica non ha bisogno di niente e nessuno, né di cibo né di cure. È l’illusione di tenere sotto controllo tutto ciò che riguarda se stessi - il cibo, le calorie, il corpo - di sperimentare la propria onnipotenza e la propria vittoria - sugli istinti, sulla fame, sulla richiesta d’affetto.
Il soggetto affetto da bulimia o binge eating invece è una persona che tende a perdere il controllo, che non riesce a gestire le emozioni, impulsivo. Incapace di regolare e gestire i propri vissuti emotivi, si scaglia sul cibo per non pensare e per non sentire, per stordirsi. Qualunque malessere o frustrazione viene riversata a tavola, tentando col cibo di riempire un vuoto mentale (il malessere non viene elaborato in modo riflessivo) e/o affettivo (siamo spesso in presenza di una carenza di amore), punendosi.
Nel modello Pluralistico Integrato gli obiettivi terapeutici principali sono tre (Spalletta, 2010):
In conclusione, il disturbo alimentare necessita di un intervento terapeutico per lavorare sulle aree della gestione delle emozioni, della percezione e della stima di sé, delle cognizioni disfunzionali, delle relazioni dentro e fuori la famiglia.
Il rapporto col cibo è infatti una metafora di un malessere molto più profondo e radicato, che tiene in ostaggio la vita del paziente, intrappolato tra schemi mentali, rituali, condotte auto-lesive.
Oltre al percorso psicologico, anche l’ipnosi può essere un valido strumento, soprattutto con la bulimia: tramite ipnosi, infatti, è possibile abbassare gli stati d’ansia che precedono e culminano nell’abbuffata, favorendo una regolazione emotiva.
La psicoterapia ha lo scopo di costruire un rapporto più sano con se stessi e col mondo, imparando a tracciare intorno a sé confini definiti e a sottrarsi a dinamiche relazionali insalubri e trovando nuove fonti di gratificazioni nella propria vita: desideri, passioni, obiettivi.
Giusti E., Menici F. (2016). Il trattamento dell'immagine corporea, Sovera, Roma
Selvini Palazzoli M., Cirillo S., Selvini M., Sorrentino A.M. (1988). I giochi psicotici nella famiglia, Raffaello Cortina, Milano
Spalletta E. (2010). Cibo per vivere ...vivere per il cibo, Sovera, Roma
Ugazio V. (1998). Storie permesse, Storie proibite, Bollati Boringhieri, Torino
Valentina Comiti. Psicologa, Psicoterapeuta in formazione presso la Scuola di Specializzazione ASPIC. Svolge attività di libera professionista a Roma e lavora come formatrice in diverse città d'Italia tenendo corsi sull'analisi scientifica delle espressioni facciali e del comportamento non verbale. Si occupa di consulenza clinica individuale e di gruppo nell'età adulta, in particolare nel trattamento di ansia, disturbi dell'umore, problemi relazionali, conflitti e potenziamento della comunicazione. E' operatrice e insegnante di Training Autogeno per l'intervento nei disturbi d'ansia, insonnia e problematiche psicosomatiche. Si occupa anche dell'intervento in adolescenza, in particolare nel trattamento dei disturbi dell'apprendimento attraverso l'integrazione di tecniche di studio rapido e creativo. Nella sua visione Il percorso terapeutico è un viaggio alla scoperta delle proprie risorse. Uno spazio relazionale in cui affrontare zone d’ombra e trasformare quelle modalità che riconosciamo ricorrenti e frustranti in punti di forza e consapevolezza. Aderisce al Centro d'Ascolto Psicologico (CAP) Gratuito di ASPIC PSICOLOGIA.
Marta Di Grado. Psicologa clinica e della famiglia, si è formata a Firenze e a Torino e al momento lavora a Roma: si occupa di età evolutiva ed età adulta, ed in qualità di ipnotista (formata presso Accademia Italiana di Ipnosi Clinica Rapida, Torino) utilizza tecniche di visualizzazione e ipnosi per aiutare la persona ad acquisire una maggiore padronanza delle proprie potenzialità mentali. Presso il Policlinico Umberto I e nel privato - in particolare con i disturbi d’ansia, le difficoltà relazionali e in ambito alimentare - effettua percorsi di consulenza psicologica e di crescita personale e conduce gruppi di auto-ipnosi. Lavora con l’Istituto Walden (nel settore autismo) e ha lavorato col Telefono Azzurro nell'ambito di un progetto internazionale. Scrive articoli per giornali online e cartacei.
Pubblicato il 10/01/2018 alle ore 09:54
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