Se vogliamo poter affermare, senza ipocrisia, che anche le tragedie portano qualcosa di buono, ricordandoci che le tragedie sono tragedie e quanto di buono possono portare, il più delle volte, lo si sarebbe potuto ottenere prima che il peggio si verificasse, è doveroso fare in modo che il dolore delle perdite che la catastrofe determina e il rimorso/vergogna della mancata prevenzione non si trasformi in un’ulteriore rimozione, ostacolando la disamina degli errori e delle mancanze, lasciandoci attoniti in attesa di un altro disastro che inesorabilmente prima o poi ci colpirà ancora.
La crescita post-traumatica potrà esserci, sul piano psicologico, per gli individui e per la comunità colpita, solo a distanza di tempo e in ragione del modo in cui è stata gestita l’emergenza, da un punto di vista dei soccorsi e delle azioni volte alla ricostruzione e al rientro nella normalità. Per non rendere vano il dolore e le perdite subite da chi è stato colpito è necessario fare tesoro dell’esperienza per poter prevenire in futuro gli esiti degli eventi calamitosi che prevedibilmente continueranno a verificarsi nel nostro Paese, come altrove nel mondo.
San Giuliano 2002. L’Aquila 2009. Emilia 2012. Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto, Pescara del Tronto 2016. Una striscia di morti, feriti, distruzione e vite sconvolte, nello spazio di una manciata di anni passati a rincorrere l’emergenza e il miraggio della ricostruzione. La grande rimozione è l’adeguamento sismico degli edifici privati e pubblici prioritariamente nelle zone a maggior rischio sismico (nella cartina sono quelle colorate di rosso).
Ma c’è un altro tabù da infrangere relativamente alla questione terremoto ed emergenze ambientali in generale, relativo alla sicurezza preventiva, al soccorso e all’assistenza delle persone con disabilità.
Da una ricerca sul web l’impressione è che solo negli ultimi anni si sia avviata una riflessione sull’argomento: visitando il sito della protezione civile si evince che esiste un sito dedicato alle persone con disabilità che fornisce alcune utili, ma non esaustive di tutte le casistiche, indicazioni su come soccorrere persone con limitazioni fisiche e/o sensoriali o deficit cognitivi e che riporta alcune esperienze di esercitazioni per mettere a punto piani di evacuazione per persone con disabilità. Oltre a ciò è ancora in corso un’attività di scambio con associazioni di categoria per stilare le necessità particolari delle persone con disabilità.
L’argomento è ancora tabù e solo all’indomani del terremoto che ha sconvolto i comuni del centro Italia, comincia ad essere infranto grazie alla disponibilità di alcune mamme e persone con disabilità che hanno deciso di fare il sacrificio di ripercorrere con la memoria i momenti terribili vissuti durante il sisma del 24 agosto per sensibilizzare l’opinione pubblica (per una rassegna vedi sotto). La maggior parte delle testimonianze (fortunatamente rese da persone che non si trovavano nell’epicentro) fanno riferimento all’impossibilità di scappare a causa della gravità della disabilità e al terrore provato anche a chilometri di distanza nel sentirsi in trappola, senza via d’uscita a causa delle barriere architettoniche presenti nelle case. Una sola testimonianza di una famiglia che soggiornava nell’epicentro del terremoto ha avuto lieto fine grazie alla stabilità dell’edificio e all’assenza di barriere architettoniche.
Le considerazioni che si possono immediatamente trarre da questi racconti sono:
Le testimonianze fanno riferimento a momenti di puro terrore, all’istinto di scappare bloccato dall’impossibilità viscerale di abbandonare il/la proprio/a figlio/a. Chi ha più figli (disabili e non) racconta di un drammatico conflitto tra il rimanere con la figlia disabile e l’agevolare la fuga delle altre due figlie… nonché della eroica, tenerissima decisione delle bambine di rimanere tutti insieme. Anche se la scossa ha lasciato danni materiali lievi e nessuna ferita fisica, la sofferenza psicologica di queste esperienze è profonda e lascia sedimenti duraturi. Sentire che tutti scappano mettendosi in salvo senza preoccuparsi di chi è impossibilitato a fare altrettanto, può instillare un forte senso di abbandono e solitudine, ancor più marcato di quello che può essere avvertito nell’ordinaria quotidianità.
L’altro aspetto riguarda l’ipotesi di una formazione specifica per gli operatori delle sale operative dei diversi servizi di emergenza (soccorso tecnico urgente, soccorso sanitario, pronto intervento), che potrebbero, una volta raccolta la richiesta di soccorso, smistare la telefonata ad operatori dedicati al supporto telefonico per persone con disabilità, e in generale alle cosiddette “vittime speciali” (bambini, anziani, disabili). In tal modo la persona con disabilità e/o il suo accompagnatore potrebbero essere rassicurati, al fine di contenere l’ansia, il panico e il sentimento di abbandono, con l’obiettivo ulteriore di rendere più efficace l’intervento dei soccorritori.
L’approccio da adottare deve essere caratterizzato da:
Accanto a questi interventi per migliorare l’efficacia dei soccorsi, la priorità assoluta delle amministrazioni pubbliche dovrebbe essere quella di agevolare le persone con disabilità e le loro famiglie nel trovare alloggio in edifici adeguati dal punto di vista sismico e dotati di strutture STATICHE per la fuga. Solo con l’intento di evidenziare l’esistenza di soluzioni tecniche e senza avere la pretesa di essere esaustivo o di sostituirmi al parere di professionisti abilitati ad effettuare disamine tecniche su questo argomento e sulla relativa normativa, mi limito a far rilevare l’importanza del dotare gli edifici di scivoli percorribili da sedie a rotelle, carrellini e lettighe. Come si può vedere nella foto accanto di un noto centro riabilitativo di Roma, è possibile realizzare scivoli che dai piani superiori portino al piano terra in sostituzione delle classiche scale di emergenza. Ciò si rende necessario perché in caso di terremoto o incendio è rischioso e sconsigliabile utilizzare dispositivi quali ascensori o elevato a causa di black out, crolli, lentezza dei dispositivi.
Si dovrebbe iniziare dall’edilizia pubblica e dalle attività private convenzionate (Uffici, Scuole, Ospedali, Centri riabilitativi/residenziali/diurni, Case Famiglia). Particolarmente nei centri dedicati ad attività dedicate a persone con disabilità, in cui la proporzione di norma è di un operatore ogni 3-5 utenti. Difficile pensare, pur riconoscendo tutto l’eroismo e la dedizione degli operatori, che possano mettere in sicurezza più persone nel breve lasso di tempo che intercorre tra una scossa di terremoto e l’altra. Inevitabilmente qualcuno dovrebbe essere lasciato indietro, di conseguenza è fondamentale che la struttura sia resistente anche ai più forti scuotimenti tellurici. Sarebbe poi opportuno continuare nell’imporre l’adeguamento sismico e la previsione di vie di fuga per le persone con disabilità a tutte le attività pubbliche private (negozi, attività di intrattenimento, luoghi di lavoro, ecc.), in quanto è altamente discriminante pensare di adeguare solo i luoghi pubblici che si PRESUME siano frequentati da persone con difficoltà. In primis perché costoro hanno il diritto di recarsi dove vogliono ed avere le medesime tutele di chiunque altro, in secondo luogo perché ognuno può avere una disabilità temporanea pur non rientrando nella categoria.
Se in linea di principio non sarebbe così complicato adeguare le strutture pubbliche una volta recuperate le risorse economiche per farlo, un discorso più complesso si profila per l’edilizia privata soprattutto nei borghi italiani risalenti al Medioevo la cui architettura rende estremamente difficoltoso superare le barriere architettoniche e/o l’adeguamento sismico. E qui entra in gioco anche la responsabilità personale degli abitanti e dei proprietari delle case, oltre quella delle amministrazioni pubbliche.
Posto che quest’ultime dovrebbero prevedere nel piano regolatore delle città che governano una quota di abitazioni moderne, accessibili e adeguate dal punto di vista sismico collocate quanto più possibile al centro e collegate con mezzi di trasporto accessibili, c’è da rilevare la difficoltà psicologica delle persone a lasciare la casa di proprietà e di famiglia. A volte una famiglia il cui componente ha una menomazione, preferisce sostenerne tutto l’onere dell’assistenza piuttosto che fare adeguamenti strutturali che favoriscano l’autonomia e la sicurezza o quantomeno agevolino il supporto nello svolgimento degli atti quotidiani. La resistenza a ristrutturare l’abitazione al fine di abbattere le barriere architettoniche è determinata dalla difficoltà di accettare come definitiva la realtà della disabilità soprattutto in genitori di bambini/ragazzi le cui difficoltà sono in evoluzione o in persone la cui menomazione è subentrata in età adulta a causa di lesione o malattia degenerativa.
Tutto ciò si traduce in un più basso livello di qualità della vita nel quotidiano e in una maggiore vulnerabilità in caso di catastrofe. Ovvio che non si può imporre la scelta di ristrutturare o lasciare la casa d’origine, d’altro canto sarebbe auspicabile fornire degli spazi riservati dove tale opportunità possa essere valutata elaborando da una parte l’accettazione della disabilità e dall’altra il dispiacere/lutto della separazione dai luoghi della propria giovinezza.
In conclusione, la psicologia spesso viene coinvolta nella gestione emotiva e nella prevenzione secondaria e terziaria degli effetti patogenetici degli eventi catastrofici, d’altro canto essa può avere un ruolo determinante anche nella prevenzione primaria favorendo la consapevolezza dei rischi e svincolando la mentalità delle persona da una sorta di fatalità che porta a considerare come inevitabili le conseguenze di un eventuale disastro che viene indebitamente ritenuto improbabile.
Rispetto alla disabilità, la nostra disciplina può dare un contributo fondamentale facendo comprendere alle persone che esistono più soluzioni ai problemi di quante la nostra mente riesca a vedere e ad accettare. L’elaborazione dell’ansia ci aiuta a consapevolizzare i problemi prima che essi esplodano. Lavorare sul proprio senso di autostima in quanto persone con disabilità o familiari per ribadire il proprio amore per la vita e il diritto di stare al mondo, significa combattere il sentimento strisciante e inconsapevole di non essere abbastanza importanti per pretendere tutte le misure necessarie di per vivere bene ed essere tutelati.
Ci sono persone che vivono con un forte senso di colpa la propria condizione tanto da pensare che ogni richiesta ogni bisogno è un fastidio in più per la famiglia, la comunità o lo Stato. Una condizione psicologica di questo genere porta a lasciar correre, a non battersi fino in fondo perché le richieste non sono considerate diritti, ma favori, privilegi, elemosine.
Lelio Bizzarri. 42 anni sposato, vivo a Roma da quasi vent’anni. Sono psicologo-psicoterapeuta iscritto all’Ordine del Lazio da più di 10 anni. Nella mia attività mi occupo di consulenza psicologica, counseling e psicoterapia. Più spesso mi capita di lavorare sulla resilienza, sulle relazioni intime e sulla sessualità e l’avvio di progetti di vita indipendente con pazienti diversamente abili o caregiver familiari. Mi sono occupato anche di progetti formativi, finanziati da enti pubblici locali e da associazioni del terzo settore, inerenti la sessualità delle persone diversamente abili e che riguardano il lavoro di cura di persone anziane. Oltre all’intervento specifico con persone disabili, svolgo attività di prevenzione e trattamento dei disturbi dell’umore e del comportamento alimentare.
Andrea Bonano. Psicologa, è stata per circa 8 anni docente esterna presso il Ministero dell’Interno – Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco. Oggi è formatrice presso ASPIC Roma, dove è responsabile del Master in Gestione della crisi e counseling in emergenza.
Pubblicato il 28/09/2016 alle ore 09:58
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