Genova è il ponte Morandi. I Genovesi non sono il ponte Morandi.

La tragedia del crollo del ponte vista con gli occhi di un componente dell’NSPS.

È un racconto un po’ lungo, lo so. Ma prova a raccontarla una settimana così con meno parole.

14 agosto. Crolla il ponte Morandi a Genova. Confesso, non sapevo si chiamasse così. E come me molti altri italiani, quasi tutti, credo, anche se dal 14 agosto lo chiamiamo ormai tutti per nome.

Ero in ferie. Come tanti. E in tanti lo erano come me. Alcuni in giro per il mondo o della penisola. Altri, tanti, a Genova, residenti e non.

Arriva la notizia. Una catastrofe. Ma difficile all’inizio comprenderne la portata. Difficile all’inizio credere che fosse realmente successo.

"Come è crollato il ponte?!?"

In tanti hanno reagito rispondendo: “Come è crollato il ponte?”. Un’affermazione che ha indignato non poche persone, soprattutto quando a pronunciarla è stato un operatore del 112. Incompetenza a gestire la chiamata? Credo di no. Credo piuttosto incredulità. La stessa incredulità con cui hanno reagito in tanti. “Non è possibile!”. “Ma che stai dicendo!?”. “Come è crollato il ponte?”. “Ma quale?”. “Non è possibile che sia proprio quello”. Non un ponticello che attraversa un ruscello di montagna, o un ponticello improvvisato da chissà chi. Il Ponte. Il ponte Morandi. Cioè stiamo parlando di un’autostrada. Di quel tratto di strada che per essere attraversato richiedeva il pagamento di un pedaggio, quel tratto di strada grazie al quale le due metà di Genova venivano congiunte e ricongiunte. Insomma un ponte predisposto per il passaggio di auto e camion. Come può crollare un ponte sotto il passaggio di auto e camion se è stato realizzato per questo? È al di fuori di ogni ordine di idee. Come dire che da domani camminiamo tutti a testa all’ingiù. Che quando la mattina scendo dal letto poggio i piedi sul soffitto.

Ci sono certezze che non dovrebbero essere infrante. Come quelle che un bambino di 8 anni non può morire mentre va a pranzo dai nonni attraversando un’autostrada. Come quella che non posso pensare che dopo pochi minuti dal mio passaggio su quella strada, appena percorsa, come tutti i giorni, in macchina con mia figlia, io ho appena rischiato di morire.

Queste le incredulità ascoltate in questi giorni.

14, 15, 16, 17, 18, 19, 20 agosto 2018

7 giorni. Una settimana. Un tempo relativamente breve. Un tempo che sembra un’eternità.

14 agosto. Apprendiamo la notizia. Tam tam di telefonate. Sentiamo i nostri amici di Genova. Che succede? Come state? Cosa possiamo fare per voi?

15 agosto. Sospensione. Con il fiato sospeso. Cerchiamo di capire cosa sta realmente accadendo. Rimaniamo sospesi in una dimensione parallela. Si cercano i dispersi. Si piangono le prime vittime. Si inizia a comprendere la portata della catastrofe. Per chi era sul ponte. Per i loro cari. Per chi era sotto al ponte. Per chi, nella sua casa, che quasi fungeva da supporto a quella mastodontica struttura, ha tremato, temuto, per poi doverla abbandonare lasciando lì tutto.

16 agosto. Iniziamo a capire. Sempre di più purtroppo. Le lacrime per le vittime sono sempre più copiose. Come più copiosa è la rabbia per l’ennesima tragedia frutto della mano dell’uomo. Tragedia che poteva e doveva essere evitata.

17 agosto. Perché siamo ancora qui? Riprendiamo i contatti con i nostri amici e colleghi di Genova. Cosa possiamo fare per voi? Ci confrontiamo con Camelot-Him, l’associazione di Protezione Civile di cui siamo nucleo attivo da alcuni anni. Grazie a Camelot-Him e con Camelot-Him, attiviamo la nostra fitta rete nata dalla collaborazione e condivisione di una doppia rete nazionale, quella di ASPIC, che ha sedi in tutta Italia, Genova compresa, quella di Prociv Italia, di cui Camelot-Him fa parte, che ha sedi in tutta Italia, Genova compresa. Cosa possiamo fare? Come possiamo farlo?

18 agosto. Ci attiviamo. Ci organizziamo. Pianifichiamo. Divulghiamo. Una macchina ormai rodata si mette in moto velocemente. I volontari del Nucelo di Supporto PsicoSociale (NSPS) ASPIC Emergenza danno la loro disponibilità. Claudia Montanari, Presidente dell'Università del Counselling UPASPIC fornisce il suo supporto e la sua supervisione. Ugo Gentile, responsabile delle emergenze di Camelot-Him, ci offre la sua collaborazione, mettendoci in contatto con i referenti di Genova. La sede ASPIC di Genova si attiva per accogliere i volontari e per gestire l'organizzazione necessaria a realizzare gli incontri pianificati. I destinatari iniziano ad aderire. Un gran fluire di migliaia di condivisioni fa correre la notizia di pagina in pagina in rete. La stampa ci avvicina con interesse e, con mio grande stupore, con tatto, per chiederci maggiori informazioni, mostrando interesse e disponibilità a divulgare la notizia.

19 agosto. Si parte. In poche ore (5, secondo le mappe dei navigatori) si arriva. Si inizia.

19 agosto. Un defusing a Genova

Cosa possiamo fare nelle prime ore e nei primi giorni successivi all’emergenza? Non siamo soccorritori, di quelli che con sudore e fatica hanno reso possibile il salvataggio di vite umane. E che con lo stesso sudore, tanto sconforto, hanno scavato per recuperare le salme delle vittime. Non siamo medici, non curiamo le ferite del corpo. Non siamo operatori della sicurezza, che garantiscono l’incolumità delle persone.

Siamo il Nucleo di Supporto PsicoSociale (NSPS) Aspic Emergenza. Un nucleo composto da psicologi, psicoterapeuti, counselor, mediatori, educatori, pedagogisti. Cosa sappiamo e possiamo fare?

Possiamo ascoltare, accogliere, stare vicino. Insieme, in cerchio, alla pari. In un gruppo che ha un nome e una metodologia precisa: il defusing. Lo scopo? Facilitare le vittime della catastrofe appena avvenuta nell’elaborazione e condivisione della propria esperienza vissuta, subita.

La condivisione: un dono prezioso

Le persone che hanno deciso di aderire al gruppo sono persone che vivono a Genova e che sono state colpite dal crollo del ponte Morandi in modo diverso. Eh si, perchè le vittime di questa grande tragedia sono le persone che erano sul ponte, i loro cari che non potranno mai dare un senso ad una morte che poteva essere evitata. Ma le vittime sono anche gli abitanti delle tantissime case sfollate. Vittime sono anche tutta Genova e i  genovesi che sono stati colpiti nelle loro certezze e senso di stabilità. "Per noi è stato come un <<11 settembre>>". L'ho sentito tante volte in questi giorni. Un vissuto condiviso dall'intera città. Vissuto espresso a bassa voce, come forma di rispetto per le vittime del crollo delle Torri Gemelle. Un pensiero anche questo ricorrente. Rispetto per chi è "più vittima di me". Pensiero giusto e generoso che, tuttavia, non deve farci dimenticare che tutte le vittime, di qualsiasi natura esse siano, hanno lo stesso diritto a vivere il proprio dolore.

E sono state proprio queste persone che mi e ci hanno accolto aprendoci le porte della loro città, con generosità, accoglienza, disponibilità.

Ciascuno ha trovato nella condivisione una risorsa diversa e spesso comune: “mi sono sentita alleggerita”, “finalmente persone reali in un contesto reale, lontano dai post polemici e sterili dei social”, “uno spazio in cui prendere contatto con i miei vissuti”. Queste solo alcune delle testimonianze che ancora riecheggiano nella mia testa.

A cosa serve un defusing?

Il defusing è una tecnica che viene definita un “pronto soccorso emotivo”, teso a comprendere e “medicare” le ferite che una catastrofe ci provoca.

Uno spazio di condivisione, di elaborazione, di comprensione dell’esperienza vissuta. Un’esperienza che offre una catarsi emotiva.

Un luogo in cui si comprende che è possibile legittimare le nostre emozioni, anche quelle per cui ci sentiamo in colpa. “Come posso provare gioia per essere felice a non essere morto?”: una frase sentita più e più volte in questo incontro. Eppure si può. Perché questa gioia non è incompatibile con l’altrettanto forte dolore che si prova a pensare a chi non è stato altrettanto fortunato.

Un gruppo in cui si impara che le nostre reazioni, che ci colgono (positivamente o negativamente) di sorpresa sono normali in una situazione che normale non è.

Un cerchio in cui si può dare un senso a quello che è accaduto dentro di sé e intorno a sé. Per cercare una spiegazione che ci consenta di dare un senso alle reazioni inspiegabili di choc dei nostri cari. Per capire se e quanto i pensieri, le emozioni e le reazioni fisiche che ci stanno accompagnando in questa settimana sono normali in queste condizioni e come fare per gestirli.

20 agosto. La formazione.

Il giorno successivo al defusing, ci dedichiamo alla formazione dei professionisti che sono desiderosi di aiutare i propri concittadini. Lo svelo nel corso dell’incontro. Non è “formazione”. È “in-formazione”. In poche ore non si può acquisire una formazione così specifica e delicata. Ma è possibile in-formarsi. Per comprendere le specificità di un contesto tanto delicato quanto complesso.

“Non si gioca con la vita delle persone”. Questo il mio motto in “tempo di pace” (così chiamiamo il tempo in cui normalmente operiamo al di fuori delle emergenze) così come durante un’emergenza.

Che altro non è che il principio alla base degli interventi dell’ASPIC: “Aiutare è bene, saper aiutare è meglio”.

Per aiutare gli altri, insomma, bisogna saperlo fare.

Il desiderio e l’entusiasmo sono essenziali ma non sufficienti. Bisogna avere le competenze adeguate ma anche un’adeguata conoscenza del sistema istituzionale in cui questo intervento si inserisce.

20 agosto. Il rientro. "Genova è il ponte Morandi. I genovesi non sono il ponte Morandi."

Conoscevo Genova. È una delle poche città in cui sono tornata, per circostanze varie, più volte.

Oggi posso dire di conoscerla un po’ di più.

Non avrò mai la pretesa di conoscere le mille meraviglie che in sole 48 ore ho avuto la fortuna di ammirare. Antichi palazzi che ti sorprendono per la loro sontuosità. Chiese che si celano come cattedrali tra i vicoli. Gli stupendi vicoli che De Andrè mi ha insegnato a conoscere con le sue note delicate e frizzanti e la sua poesia pungente. Il porto. Le attrazioni. La collina verde dove si nascondono timidi borghi e dimore di un fascino bucolico e antico.

Il ponte. Lo confesso, quel ponte per me non era fino ad oggi così importante, neanche un briciolo di quanto lo potesse essere nel quotidiano dei genovesi.

Eppure oggi quel ponte fa parte di me. Con la sua enorme ferita. Una ferita che i miei occhi non sono riusciti a cogliere in un’unica immagine, nonostante, attonita, continuassi a fissarlo. Da una parte all’altra. Da una parte all’altra della città che fino a una settimana fa aveva l’onere e il dovere, l’onore e il piacere di tenere unite.

Ed ecco l’immagine che ho portato via con me, ascoltando il dono dei racconti che gli abitanti di Genova hanno voluto condividere. Un ponte che univa le due parti della città. Un ponte che era Genova. Genova era il suo ponte. Parte integrante della vita di questa lingua di terra meravigliosa.

Ma un’altra immagine ancora più forte mi ha accompagnata nel mio rientro. Genova è il ponte Morandi. Ma i Genovesi non sono il ponte Morandi.

Genova e i Genovesi sono molto di più. Una Comunità che sa tenersi unita. Che sa stringersi forte per per affrontare le avversità. Che sa trovare nuove arterie per colmare quella grande ferita che si era illusa di poter separare Levante e Ponente. Una Comunità che sa anche aprirsi e accogliere. Che nelle tante altre arterie riscoperte sa offrire un passaggio ai pellegrini, ma anche una porta e una dimora per chi, per poco o per tanto, per lavoro, per piacere o per offrire la propria vicinanza e il proprio supporto, per qualche ora, per qualche giorno si sente un po’ cittadino di una culla che, tra terra e mare, sa ogni volta far ricorso alla propria resilienza per ricostruirsi più forte di prima.

Ecco. È crollato un ponte di pietra. Non sta a me (non ne avrei le competenze) discuterne le cause e le colpe. Ma questo sì, lo posso sicuramente dire. Un ponte di pietra è crollato. Ma il ponte umano, fatto di persone, questo si è rafforzato e nessuno, forza della natura, inerzia o imperizia dell’uomo che sia, potrà mai scalfirlo.

Una settimana. 48 ore. Un primo tassello. Solo il primo.

Tante parole per descrivere una settimana che sembra un tempo infinito. Un tempo sospeso nella spaccatura di un ponte dilaniato che chiede di essere ricongiunto. 48 ore, un tempo irrisorio che ha il valore di un tempo enorme nella vita di chi le ha vissute.

Un primo piccolo tassello. Con la consapevolezza che continuerà il nostro impegno perché sia solo il primo di un nuovo e più grande ponte. Quello fatto di persone. Che sanno ricongiungere lembi di terra, regioni di Italia, persone che sanno stringersi per mano per realizzare Comunità sempre più forti e resilienti.

Grazie

aspic emergenza

Grazie. È la parola che più volte ho pronunciato in questi giorni. Grazie ai fondatori dell’ASPIC, Edoardo Giusti e Claudia Montanari, che ci hanno consentito di realizzare questo intervento. Grazie all’ASPIC di Genova e al suo presidente, Marco Andreoli, che seppur colpito come cittadino da questa tragedia ci ha supportato, non solo occupandosi degli aspetti organizzativi ma anche prendendosi cura dei volontari. Grazie a Camelot-Him e Ugo Gentile, responsabile delle emergenze, che ci ha guidato nella gestione degli aspetti istituzionali e facendoci sentire la sua costante presenza, pur essendo fisicamente impegnato in un altro intervento. Grazie alla squadra dei volontari che si è resa immediatamente disponibile e che, compatta, ha affrontato tutte le difficoltà e le fatiche dell’intervento. Grazie ai volontari di Aspic Emergenza e degli altri nuclei di Camelot-Him che, pur non essendo partiti, hanno fatto sentire il loro supporto, seguendo a distanza i propri colleghi durante tutto il loro viaggio. Grazie alla stampa che, disconfermando tutte le nostre sospettosità, si è avvicinata con tatto e delicatezza, offrendoci un veicolo per far arrivare il nostro messaggio a migliaia di persone. Grazie agli abitanti di Genova che ci hanno aperto le porte della loro città e del loro cuore facendoci sentire parti di essi.

Pubblicato il 20/08/2018 alle ore 00:00

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