Di Silvia Serino.
Abstract: il problema dello stress nel mondo del lavoro è quanto mai attuale e serio, come si evince da una recente ricerca Istat del 2007 dal titolo “Competenze, attività e condizione lavorative delle professioni in Italia”. Attraverso il modello dello stress lavorativo di Cooper e quello della domanda-controllo di Karasek e Theorell, verranno evidenziate le caratteristiche che rendono le helping profession una categoria particolarmente a rischio di stress.
Keyword: stress, stress da lavoro, relazione d’aiuto, helping profession.
Lo stress da lavoro può essere definito, in generale, come una “risposta fisica ed emozionale dannosa che viene attuata quando le esigenze del lavoro non corrispondono (o si ritiene non corrispondano) alle capacità, risorse o esigenze del lavoratore” (National Institute for Occupational Safety, 1999). Il termine “stress”, che deriva probabilmente dal latino “strictus”, ovvero stretto, compresso (Cox, 1978), significa originariamente “pressione” e venne introdotto in medicina per analogia della metallurgia, dove era utilizzato per indicare, appunto, la pressione che si applica ad un metallo per testarne la resistenza (Pancheri, 1983; Pellegrino, 2002). E si può parlare proprio di “pressione” per spiegare quella sensazione di continua tensione avvertita sul posto di lavoro, come si evince da una recente indagine Istat del 2007, dal titolo “Competenze, attività e condizione lavorative delle professioni in Italia”: pressione per dover continuamente rispettare delle scadenze (19,8% del totale), pressione per evitare di commettere gravi errori durante lo svolgimento delle proprie mansioni (5,9% del totale), pressione per riuscire a sopravvivere nella giungla della competizione (4,1% del totale). Anche se si può concordare con quanto affermato da Selye, ovvero che “La completa libertà dallo stress è la morte. Contrariamente a quanto si pensa di solito, non dobbiamo, ed in realtà, non possiamo evitare lo stress, ma possiamo incontrarlo in modo efficace e trarne vantaggio imparando di più sui suoi meccanismi, ed adattando la nostra filosofia dell’esistenza ad esso” (Selye, 1974; trad. it. 1976, p. 89), è altrettanto innegabile che lo stress comporti una condizione spesso di disagio e di sofferenza per il lavoratore.
Il modello di Cooper (Cooper e Marshall, 1976, 1978; Cooper e Sutherland, 1988) aiuta a capire quali sono le principali fonti di stress sul posto di lavoro, concepite proprio come “pressioni” dell’ambiente sul soggetto, suddividendole in cinque macro-categorie: le fonti intrinseche al job, il ruolo nell’organizzazione, lo sviluppo di carriera, le relazioni al lavoro e la struttura e il clima organizzativo. In particolare, con “fonti intrinseche al job” si intende l’insieme condizioni fisiche e ambientali che possono incidere negativamente sulla concentrazione e sull’efficienza dei lavoratori (come la rumorosità, le continue vibrazioni, le variazioni eccessive di temperatura, di ventilazione e di umidità, l’ illuminazione non adeguata, le carenze nell’igiene) e, soprattutto, i fattori relativi al compito, i cosiddetti “taskdemands”, come il carico lavorativo, che può essere sia sovradimensionato che sottodimensionato e deve essere inteso sia in termini quantitativi che qualitativi, la pressione temporale e la presenza di responsabilità elevate, soprattutto quelle concernenti la vita di altre persone.
Un altro interessante modello, che cerca di indagare la relazione tra le “pressioni” dell’ambiente lavorativo e la risposta del lavoratore, soprattutto in termini di “strain”, ovvero di sforzo fisico e psicologico, è quello di Karasek e Theorell (1990). In particolare, l’attenzione è posta su due variabili:
La combinazione di questi due fattori dà luogo, secondo Karasek e Theorell (1990), a quattro diverse esperienze psicosociali di lavoro:
Che alcune professioni siano a rischio di stress più di altre è un dato di fatto, come si evince sia dal modello dello stress lavorativo di Cooper (Cooper e Marshall, 1976, 1978; Cooper e Sutherland, 1988) che dal modello “domanda/controllo” di Karasek e Theorell (1990).
Forse, però, non è altrettanto evidente il fatto che “aiutare e prendersi cura degli altri” è una delle professioni che ha maggiori costi in termini di benessere personale. Anche il rapporto Istat “Competenze, attività e condizione lavorative delle professioni in Italia” del 2007 evidenzia come, in generale, siano le “professioni intellettuali” (categoria che comprende anche gli specialisti della salute e i professionisti delle scienze umane, sociali e gestionali) a risultare maggiormente colpite dallo stress derivante dalla gravità degli errori commessi e dall’estrema competitività presente nell’ambiente lavorativo. Cerchiamo, innanzitutto, di capire cosa si intende per “professioni di aiuto”: il termine “relazione di aiuto” denota il lavoro di categorie professionali diverse in quanto a formazione e strumenti impiegati, che comprendono, tra le altre, lo psicologo, l’educatore, l’insegnante, il medico, l’assistente sociale e l’infermiere. Borgogni e Consiglio (2005) affermano che con il termine di “helping professions” intendiamo comprendere un’ampia categoria di persone che svolgono un’attività lavorativa che ha tre caratteristiche fondamentali: il lavoro richiede uno stretto contatto tra operatore e utente (a tal proposito, Maslach e Leiter nel 2000 parlano di professioni “high-touch”), la presenza costante dell’operatore e un suo forte coinvolgimento emotivo. Nella “relazione di aiuto”, quindi, una persona, appositamente e specificamente preparata, contribuisce al cambiamento di un’altra persona per mezzo di tecniche e, soprattutto, grazie alla relazione in cui entrambe sono attivamente coinvolte. Rogers parla di “una relazione in cui uno dei protagonisti ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturazione e il raggiungimento di un modo di agire più adeguato ed integrato” (Rogers e Kinget, 1970, p. 68).
Mucchielli (1983) individua alcune caratteristiche essenziali che deve possedere l’operatore per riuscire ad instaurare con il soggetto un’efficace relazione di aiuto: personalizzare l’aiuto, evitando di inquadrare la persona unicamente in una categoria diagnostica, lasciando libera espressione ai suoi vissuti problematici e riconoscendo il suo diritto di autodeterminazione, impegnarsi in modo autentico, riuscendo, però, a non farsi coinvolgere emotivamente in modo eccessivo e sgombrare la mente da facili giudizi, accettando il paziente nella sua realtà e dignità.
Queste caratteristiche richieste al “professionista di aiuto”, che potremmo fare rientrare nella categoria “fonti intrinseche al job”, in particolare i cosiddetti “task demands” di Cooper (Cooper e Marshall, 1976, 1978; Cooper e Sutherland, 1988), rendono implicito il rischio di una massiccia e prolungata situazione di stress lavorativo, le cui principali conseguenze possono essere una ridotta produttività, il deterioramento delle relazioni con l’utenza e con i colleghi, e l’alterazione dell’equilibrio emotivo e fisico dell’operatore.
Per quanto riguarda i fattori insiti nelle helping profession che possono portare allo stress lavorativo, è significativo quello che affermano Rossati e Magro (1999), ovvero che la frustrazione dell’efficienza, della sensazione di “essere utili” e di avere “successo psicologico”, guide che orientano gli operatori impegnati in questi ambiti, contribuisce allo stress e all’esaurimento fisico e psicologico. Numerosi studi (Maslach e Jackson, 1982; Favretto, 1987) hanno studiato lo stress in relazione al contatto con pazienti “difficili”, che richiedono un considerevole dispendio di energia psicologica, sottolineando come alcuni reparti dell’ospedali, ad esempio il pronto soccorso, la terapia intensiva o oncologia, siano più a rischio di stress per gli operatori. Maggiore è la responsabilità che un professionista mette in atto nella sua relazione, più elevato è il rischio di essere coinvolto emotivamente nel disagio di cui l’utente è portatore (Freudenberger e Richelson,1980). Lo studio dei fattori di personalità che incidono sullo stress da lavoro ha portato a risultati interessanti: è emerso che i soggetti più a rischio sono quelli sensibili, eccessivamente empatici, idealisti ed impegnati, che hanno aspettative irrealisticamente elevate rispetto all’aiuto che si può effettivamente fornire all’utenza (Kahill,1986). A tal proposito Giusti e Di Fazio (2008) sottolineano come alcune delle motivazioni inconsapevoli che spingono verso la professione dello psicoterapeuta possano diventare dei fattori di stress e portare ad insoddisfazione: alleviare il senso di colpa rispetto ad una situazione del passato in cui non si è riusciti a “salvare” una persona cara, soddisfare il bisogno narcisistico di essere “necessario”, gratificare i propri bisogni personali dietro un’apparente dedizione all’altro (Maeder, 1990).
Tutte queste caratteristiche rendono le helping profession un “lavoro ad alto strain” (Karasek e Theorell, 1990), un lavoro, cioè caratterizzato da un’alta e persistente tensione psicologica.
Il problema dello stress nelle professioni di aiuto è quanto mai attuale e serio perché il benessere dell'operatore si può ritenere il presupposto necessario per curare e per prendersi cura degli altri.
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Informazioni sull'autrice
Silvia Serino ha conseguito la laurea triennale in Scienze e Tecniche Psicologiche presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Attualmente, presso il medesimo ateneo, sta per conseguire la laurea magistrale in Psicologia dello Sviluppo e della Comunicazione.
Pubblicato il 08/09/2010 alle ore 18:38
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